Il rispetto che ci spetta
di Angelo Palmieri
Leggere il resoconto — o meglio, l’attacco — del sindaco Bandecchi ai lavoratori comunali di Terni mi ha lasciato addosso un senso di sconforto profondo.
Indignazione sofferta: per la violenza simbolica, per l’aula consiliare trasformata in un’arena pubblica di umiliazione. Tristezza perché questi episodi raccontano meglio di mille analisi quanto stia impoverendosi la qualità del linguaggio politico, ridotto ormai a un mix di slogan da bar e intimidazioni muscolari.
Non è solo questione di stile — e già basterebbe. È questione di sostanza. Le «parole sono atti», e qui le parole sono state scelte per generare paura, per spostare colpe dall’alto verso chi sta in basso, per alimentare un clima di sospetto e sfiducia.
In un Paese dove le disuguaglianze crescono e la fatica quotidiana dei lavoratori è spesso invisibile, la retorica dell’uomo solo al comando che sbraita e minaccia licenziamenti è un passo indietro pericoloso.
Il lavoro, nella nostra Costituzione, non è una concessione feudale né un regalo da padrone: è un diritto.
È la spina dorsale del valore e della coesione di una persona e di una comunità intera.
Il rispetto si costruisce riconoscendo le difficoltà reali, i vincoli, i limiti. Non si può trasformare il lavoratore in un capro espiatorio da sacrificare sull’altare di un’efficienza caricaturale.
Chi conosce davvero la macchina comunale sa che i problemi sono radicati: carenze di organico, risorse insufficienti, appalti contraddittori, burocrazie pesanti. Servono pazienza, coraggio, mediazione.
Non schiaffi verbali.
La politica — la buona politica — dovrebbe parlare il linguaggio della cura e del rispetto. Non per debolezza, ma per vera forza: la forza di chi sa includere, non umiliare.
La dignità dei lavoratori non è un orpello da sacrificare sull'altare dell’effimero. Dove viene meno il riconoscimento del valore umano, anche il lavoro si svuota, la cittadinanza si sfilaccia, il futuro si spegne.
Abituarsi alla violenza verbale e all’intimidazione significa accettare che la città perda la sua anima di polis e diventi solo un palcoscenico per un monologo autoritario.
A chi oggi governa rivolgiamo un invito semplice e radicale: usate il verbo pubblico non per scavare distanze, ma per far crescere comunità.
Chi semina paura raccoglie sfiducia.
Chi semina rispetto, raccoglie futuro.
È da qui che può rinascere la politica: dalla cura delle parole e delle persone.